La Corte Costituzionale
con sentenza n° 164 del 22 luglio 2021
(QUI) ha deciso un conflitto di attribuzione sollevato
dalla Regione Veneto contro decreto del Direttore generale della direzione
generale archeologia, belle arti e paesaggio del Ministero per i beni e le
attività culturali e per il turismo che aveva approvato la Dichiarazione di
notevole interesse pubblico dell'area alpina compresa tra il Comelico e la Val
d'Ansiei, Comuni di Auronzo di Cadore, Danta di Cadore, Santo Stefano di
Cadore, San Pietro di Cadore, San Nicolò di Comelico e Comelico Superiore.
La sentenza è molto interessante che interviene non solo sui poteri dello Stato nel dichiarare un vincolo paesaggistico relativamente agli articoli del Capo II parte III del Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (QUI) sulle modalità di individuazione degli immobili e aree di notevole interesse pubblico soggetti a detto Codice, ma anche su altri due aspetti di grande rilievo nei rapporti Stato Regioni su:
1. piano paesaggistico e
ruolo nell’individuare nuovi vincoli paesaggistici;
2. poteri di
pianificazione urbanistica subordinati a quelli di dichiarazione di notevole
interesse pubblico di un’area e/o immobile.
MOTIVI DI NON FONDATEZZA DEL RICORSO DA PARTE DELLA REGIONE
Secondo la sentenza della
Corte Costituzionale sul piano delle competenze costituzionali attinenti ai
beni paesaggistici, questa Corte ha già precisato che «[l]a tutela ambientale e
paesaggistica, gravando su un bene complesso ed unitario, considerato dalla
giurisprudenza costituzionale un valore primario ed assoluto, e rientrando
nella competenza esclusiva dello Stato, precede e comunque costituisce un
limite alla tutela degli altri interessi pubblici assegnati alla competenza
concorrente delle Regioni in materia di governo del territorio e di
valorizzazione dei beni culturali e ambientali. In sostanza, vengono a trovarsi
di fronte due tipi di interessi pubblici diversi: quello alla conservazione del
paesaggio, affidato allo Stato, e quello alla fruizione del territorio,
affidato anche alle Regioni» (sentenza n. 367 del 2007; in seguito, nello
stesso senso, sentenze n. 66 del 2018, n. 11 del 2016, n. 309 del 2011, n. 101
del 2010, n. 226 del 2009, n. 180 del 2008 e n. 378 del 2007).
Sulla base dei suddetti
postulati la Corte Costituzionale con la sentenza in esame ricava come sia
evidente che il potere conferito allo Stato di vincolare un bene in ragione
delle sue intrinseche qualità paesaggistiche (sentenza n. 56 del 1968) non
costituisca una deviazione dall'impianto costituzionale, come invece
suggerisce la ricorrente quando sostiene che tale attività dovrebbe
necessariamente confluire in un atto oggetto di «elaborazione congiunta» con la
Regione interessata. Secondo la Corte Costituzionale è vero il contrario: il conferimento allo Stato
della competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), e con esso
della potestà di individuare il livello di governo più idoneo ad esercitare le
relative funzioni amministrative, rende del tutto coerente con il disegno
costituzionale la previsione, oggi codificata dall'art. 138, comma 3, cod.
beni culturali,
secondo cui l'autorità statale possa autonomamente rinvenire in un bene le
caratteristiche che lo rendono meritevole di tutela, anche se la Regione nel
cui territorio il bene si trova dovesse essere di contrario avviso.
Tale principio, già espresso da questa Corte con la sentenza n. 334 del 1998, a maggior ragione va ribadito nella vigenza del nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione, che ha ulteriormente rafforzato la competenza statale nel campo della tutela dell'ambiente.
Non vi è, perciò, alcunché
di straordinario o di eccezionale nella potestà oggi riconosciuta ad un organo
statale dall'art. 138, comma 3, cod. beni culturali, posto che essa, invece, è
il naturale sviluppo delle attribuzioni dello Stato in tale materia.
Anzi, «è necessario che
restino inequivocabilmente attribuiti allo Stato, ai fini della tutela, la
disciplina e l'esercizio unitario delle funzioni destinate alla individuazione
dei beni costituenti il patrimonio culturale nonché alla loro protezione e
conservazione» (sentenza n. 140 del 2015).
IL RUOLO
DELLA REGIONE NELLA INDIVIDUAZIONE DI BENI DA TUTELARE AI SENSI DEL CODICE DEI
BENI CULTURALI E DEL PAESAGGIO
La Corte Costituzionale
nella sentenza qui esaminata cogli l’occasione per ribadire che nulla vieta
alla legislazione statale di coinvolgere le Regioni nella funzione
amministrativa di identificare i beni degni di tutela, tanto più che si
tratta di un compito logicamente e giuridicamente distinto, ma senza dubbio
preliminare, e perciò connesso, a successivi interventi di valorizzazione, che
rientrano nella competenza concorrente (sentenze n. 138 del 2020 e n. 140 del
2015).
Allo stato attuale della
legislazione, ciò avviene sia mediante l'espressione di un parere regionale non
vincolante nell'ambito del procedimento avviato dallo Stato, sia per mezzo
dell'emanazione diretta, nel procedimento che fa capo alla Regione stessa, del
provvedimento di tutela, ma sulla base della proposta alla quale è giunta una
commissione cui devono partecipare anche organi statali (artt. 137 e 140 cod.
beni culturali).
PIANO
PAESAGGISTICO E SUO RUOLO NELL’INDIVIDUARE NUOVI VINCOLI
La Corte Costituzionale
sottolinea inoltre che il piano paesaggistico, che ha una funzione di
pianificazione necessariamente ricognitiva degli immobili e delle aree
dichiarati di notevole interesse pubblico, riveste anche una funzione
eventualmente dichiarativa di nuovi vincoli (art. 143, comma 1, lettera d, cod.
beni culturali), alla quale la Regione partecipa attraverso l'elaborazione
congiunta di tale atto (da ultimo, sentenza n. 240 del 2020).
Il legislatore ordinario
si è perciò ispirato in tale materia ad una logica incrementale delle tutele
che è del tutto conforme al carattere primario del bene ambientale, cui
peraltro si riferisce, collocato fra i principi fondamentali della Repubblica, l'art.
9 Cost. (sentenze n. 367 del 2007, n. 183 del 2006, n. 641 del 1987 e n.
151 del 1986).
Tale logica, dal lato
della Regione, opera sul piano procedimentale per addizione, e mai per
sottrazione, nel senso che la competenza regionale può essere spesa al solo
fine di arricchire il catalogo dei beni paesaggistici, in virtù della
conoscenza che ne abbia l'autorità più vicina al territorio ove essi sorgono, e
non già di alleggerirlo in forza di considerazioni confliggenti con quelle
assunte dallo Stato, o comunque mosse dalla volontà di affermare la prevalenza
di interessi opposti, facenti capo all'autonomia regionale, come accade nel
settore del governo del territorio.
Per questa ragione, è
conforme al riparto costituzionale delle competenze che il piano paesaggistico
regionale - ove non sia la sede di diversi apprezzamenti legati anche alla
dimensione urbanistica del territorio - è tenuto a recepire le scelte di tutela
paesaggistica, senza capacità di alterarle neppur sul piano delle prescrizioni
d'uso. Altrimenti, esso potrebbe divenire l'occasione per ridurre lo standard
di tutela dell'ambiente in forza di interessi divergenti, anziché la sede
deputata a collocare armonicamente siffatti interessi sub valenti nella cornice
già intagliata secondo la preminente prospettiva della conservazione del
paesaggio. L'occasione, vale a dire, per degradare «la tutela paesaggistica -
che è prevalente - in una tutela meramente urbanistica» (sentenza n. 437 del
2008).
In particolare, il
principio di elaborazione congiunta del piano paesaggistico, ovvero di un atto
di competenza della Regione, non significa che in difetto del consenso di
quest'ultima lo Stato non possa vincolare alcun bene. Al contrario, esso indica
che un'attività propria della Regione (e, alla quale, pertanto, va da sé che
essa partecipi), ove confluiscano apprezzamenti attinenti sia al paesaggio, sia
al governo del territorio, non possa essere esercitata unilateralmente,
estromettendo l'autorità centrale dal processo decisionale (sentenze n. 240
del 2020; n. 86 del 2019; n. 178 del 2018; n. 68 del 2018; n. 64 del 2015; n.
211 del 2013 e n. 437 del 2008).
POTERI DI
PIANIFICAZIONE URBANISTICA SUBORDINATI A QUELLI DI DICHIARAZIONE DI NOTEVOLE
INTERESSE PUBBLICO DI UN AREA E/O IMMOBILE
La Corte Costituzionale
ribadisce quindi in conclusione la "prevalenza" assiomatica della
tutela dell'ambiente sugli interessi urbanistico-edilizi (sentenza n. 11 del
2016), quando, naturalmente, la dichiarazione di notevole interesse pubblico
sia stata legittimamente adottata con riferimento alle categorie di beni
elencate dall'art. 136 cod. beni culturali.
Non spetta perciò alla
Regione opporre alla scelta di tutela conservativa compiuta dallo Stato
l'esigenza di alterare il bene paesaggistico nell'ottica dello sviluppo del
territorio e dell'incentivo alle attività economiche che vi si svolgono, mentre
un profilo di intervento dinamico, che coinvolge la Regione, può legittimamente
articolarsi in attività finalizzate alla promozione e al sostegno della
conoscenza, fruizione e conservazione del patrimonio culturale (sentenze n. 138
del 2020 e n. 71 del 2020).
Sotto tale aspetto, è del
tutto connaturato alla finalità di conservazione del paesaggio che la
dichiarazione di notevole interesse pubblico non si limiti a rilevare il valore
paesaggistico di un bene, ma si accompagni a prescrizioni intese a
regolamentarne l'uso, fino alla possibilità di vietarlo del tutto, come questa
Corte ha recentemente sottolineato (sentenze n. 246 del 2018 e n. 172 del
2018).
Con ciò, in linea di
principio, la dichiarazione non si sovrappone alla disciplina urbanistica ed
edilizia di competenza regionale e locale, ma piuttosto specifica se e in quale
misura quest'ultima possa esercitarsi, in forma compatibile con la vocazione
alla conservazione del pregio paesaggistico propria dell'immobile o dell'area
vincolata.
La circostanza che larga
parte del territorio interessato dalla dichiarazione sia già tutelata per legge
ai sensi dell'art. 142 cod. beni culturali non toglie, perciò, che la
dichiarazione di notevole interesse pubblico possa sopraggiungere, proprio al
fine di arricchire con maggiori dettagli lo specifico grado di protezione di
cui i beni inseriti nell'area debbono godere.
Da cui il
riconoscimento che spettava allo Stato adottare il decreto oggetto di conflitto, poiché esso corrisponde all'esercizio di
un'attribuzione costituzionale declinata dalla legge con l'art. 138, comma 3,
cod. beni culturali, insuscettibile, nel caso concreto, di pregiudicare le
competenze della Regione Veneto in tema di valorizzazione dei beni culturali e
di governo del territorio.
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