Con
questo post pubblico una sintesi delle sentenze della Corte Costituzionale e
della Corte di Giustizia in materia di attività venatoria e tutela fauna
selvatica. In particolare :
1. Annotazione
tesserino venatorio – recupero fauna uccisa con caccia da postazione fissa –
distanza posto da caccia da abitazioni: Corte
Costituzionale sentenza N°291/2019 (QUI)
2. Disciplina
orari di caccia e compilazione tesserino venatorio: Corte Costituzionale sentenza n°40/2020 (QUI)
3. Manifestazioni
storico culturali e benessere animale: Corte Costituzionale sentenza n°45/2020 (QUI)
4. Disciplina
caccia primaverile: Corte di Giustizia sentenza
23 Aprile 2020 causa C161-19 (QUI)
5. Addestramento e allenamento dei falchi per l’esercizio
venatorio: Corte Costituzionale sentenza 63/2020 (QUI).
Analizziamo
di seguito le singole sentenze sopra elencate…
ANNOTAZIONE TESSERINO
VENATORIO – RECUPERO FAUNA UCCISA CON CACCIA DA POSTAZIONE FISSA – DISTANZA
POSTO DA CACCIA DA ABITAZIONI
La Corte Costituzionale con sentenza 27
Dicembre 2019 N° 291:
1. ha dichiarato illegittima costituzionalmente la norma regionale che prevedeva
: le annotazioni dei capi di selvaggina
migratoria sul tesserino venatorio devono essere effettuate, in modo
indelebile, sul posto di caccia, dopo gli abbattimenti e l'avvenuto recupero
dell'animale.
Secondo la Corte Costituzionale l'attendibilità dei dati
raccolti è maggiormente garantita quando l'adempimento viene effettuato in
maniera tempestiva e, per tale ragione, il legislatore nazionale, con la legge
7 luglio 2016, n. 122 (Disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti
dall'appartenenza dell'Italia all'Unione europea - Legge europea 2015-2016), ha
aggiunto il comma 12-bis all'art. 12 della legge n. 157 del 1992, prevedendo
che l'annotazione sul tesserino venatorio debba essere effettuata subito dopo
l'abbattimento, sia per la fauna selvatica stanziale che per quella migratoria.
L'intervento normativo deriva da una sollecitazione della Commissione europea,
poiché l'art. 12 della legge n. 157 del 1992 non prevedeva un tempo specifico
per adempiere all'obbligo di annotazione, e la Commissione europea, nell'ambito
della procedura avviata nei confronti dell'Italia (caso EU Pilot 6955/14/ENVI)
con richiesta di informazioni sull'attività di monitoraggio del prelievo
venatorio, aveva riscontrato l'esistenza di una variegata legislazione
regionale, che consentiva di differire, con riferimento alle sole specie
migratorie, l'annotazione degli abbattimenti al termine della giornata di
caccia. Nella prospettiva di tutela della sopravvivenza della fauna selvatica,
l'obbligo di annotazione non può che investire l'abbattimento dell'esemplare,
inteso come evento effettivamente realizzatosi, a nulla rilevando la materiale
apprensione del capo. Dunque, la norma censurata, che subordina le annotazioni
sul tesserino venatorio al preventivo recupero dell'animale, frustra la ratio
sottesa alla disciplina normativa statale e abbassa la soglia di protezione da
essa stabilita. La criticità non è superabile accedendo alla tesi della difesa
regionale, che ritiene di aver esteso l'adempimento ai casi di recupero di
abbattimenti effettuati da terzi, poiché l'interpretazione offerta trova
ostacolo nel dato letterale della norma, che utilizza la congiunzione «e» e non
la disgiunzione «o», per precisare che l'annotazione va effettuata dopo
l'abbattimento e l'avvenuto recupero.
2. Ha
dichiarato legittima costituzionalmente la norma regionale secondo al quale la
selvaggina ferita può essere recuperata fino a duecento metri dal capanno, in
attitudine di caccia e con l'uso del cane o del natante, ma con arma scarica e
riposta in custodia. Secondo la Corte Costituzionale il recupero del capo ferito da
appostamento fisso, come previsto dalla legge regionale censurata, integra
un'attività neutra ai fini della tutela ambientale, poiché deve avvenire con
arma scarica e riposta nell'apposita custodia; pertanto, essendo esclusa la possibilità
di uccisione di capi aggiuntivi rispetto a quelli già feriti, il recupero non
può essere ricondotto alla caccia vagante, che si aggiungerebbe a quella da
appostamento fisso prescelta dal cacciatore che spara dal capanno. La norma
censurata, che ha allargato il raggio di azione nell'ambito del quale si può
procedere al recupero dell'animale, va ricondotta al legittimo esercizio della
competenza residuale delle Regioni in materia di caccia, quale disciplina delle
modalità di esercizio delle attività afferenti ad essa.
3. Ha
dichiarato legittima costituzionalmente la norma regionale che impone di
verificare le distanze dei capanni di caccia dagli immobili destinati ad
abitazione o al lavoro e quelle per l'uso delle armi da sparo seguendo
l'andamento morfologico del terreno. Secondo
la Corte Costituzionale le prescrizioni dell'art. 21 della legge n. 157 del 1992 ( i vari divieti
nell’ambito dell’esercizio della caccia), che sono state indicate quali norme
interposte rispetto alla violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s),
Cost., sono estranee alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema. La Corte ha più volte affermato che per
individuare la materia in cui si colloca la norma, interposta nella specie,
occorre aver riguardo all'oggetto, alla ratio e alla finalità della disciplina,
verificando il nucleo centrale delle prescrizioni e le finalità dell'intervento
legislativo, a prescindere dagli effetti riflessi (sentenze n. 116 del 2019, n.
108 e n. 81 del 2017 e n. 21 del 2016). Gli
specifici divieti previsti dall'art. 21 della legge n. 157 del 1992 mirano a
garantire la tutela di coloro che, trovandosi nei pressi del cacciatore,
possono essere coinvolti dalla sua attività; le norme hanno valenza preventiva
e sono volte a stabilire condizioni di sicurezza minime, a garanzia della
pubblica incolumità. Diversamente la
norma regionale, adottata in tema di modalità di misurazione delle distanze, in
quanto volta alla disciplina dell'attività venatoria, ricade nell'ambito della
competenza legislativa regionale residuale in materia di caccia, che è
legittimamente esercitata anche quando le prescrizioni tecniche per il suo
esercizio sono dettate in vista della tutela di interessi diversi, che si
intrecciano o contrappongono a quello del cacciatore e che, nella specie,
afferiscono alla pubblica incolumità. La
materia su cui ha inciso la legge regionale impugnata è del tutto estranea a
quella ambientale, poiché non coinvolge alcun aspetto relativo alla
conservazione della fauna e dell'ecosistema, così che la questione - che, in
relazione alle norme indicate quali parametri interposti, avrebbe dovuto essere
prospettata per tutt'altro parametro costituzionale e cioè per violazione delle
attribuzioni statali in materia di ordine pubblico - va rigettata.
La Corte Costituzionale con sentenza 6 marzo
2020 n°40 ha giudicato la legittimità costituzionale di due norme della
Regione Liguria in materia di disciplina della attività venatoria. In
particolare:
1. La prima norma regionale dispone
che “la caccia da appostamento fisso o
temporaneo alla selvaggina migratoria è consentita fino a mezz'ora dopo il
tramonto”. Questa norma è dichiarata incostituzionale in quanto viola il limite fissato dall'art. 18, comma 7, della legge
quadro statale n. 157 del 1992. Infatti secondo la Corte Costituzionale (vedi
anche sentenza 191 del 2011) la disciplina statale che delimita il periodo
entro il quale è consentita l'attività venatoria «è ascrivibile al novero delle
misure indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle
specie cacciabili, rientrando nella materia della tutela dell'ambiente, vincolante
per il legislatore regionale». Ha quindi precisato che a tale disciplina sono
riconducibili anche «i limiti orari nei quali quotidianamente detta attività è
lecitamente svolta in relazione a determinate specie cacciabili.
2. La seconda norma regionale
prevede invece che il cacciatore “deve
[...] indicare, negli appositi spazi del tesserino venatorio regionale relativi
alla fauna stanziale e migratoria, la sigla del capo abbattuto subito dopo
l'abbattimento accertato”. La Corte
ha invece dichiarato la costituzionalità di questa norma in quanto la
precisazione, da parte della stessa, dell'abbattimento come “accertato”
determini una diminuzione del livello di protezione stabilito dal legislatore
statale, concorrendo, al contrario, a conseguirlo in modo coerente con lo scopo
cui è esso preordinato. Peraltro, la norma regionale denunciata prevede
espressamente che l'annotazione debba essere effettuata «subito dopo»
l'abbattimento, escludendo così ogni possibilità di differimento dell'obbligo
di annotazione rispetto a tale evento, la cui verifica - anche qualora dovesse
richiedere uno specifico accertamento dell'effettiva uccisione del capo di
fauna - deve, in ogni caso, essere effettuata dal cacciatore immediatamente
dopo avere sparato.
La Corte
Costituzionale, con sentenza n° 45 del 2020, ha giudicato la costituzionalità di due norme
regionalI:
1.
la prima recita:
“qualora la manifestazione preveda l’impiego di equidi o altri ungulati,
il terreno asfaltato o cementato è ricoperto da materiale idoneo ad attutire i
colpi degli zoccoli degli animali”
2.
la seconda recita: “qualora, considerate la lunghezza e
le caratteristiche del percorso, non sia possibile o conveniente ricoprire il
tracciato da percorrere, deve, comunque, essere assicurato il benessere degli
animali con idonea ferratura atta ad attutire i colpi degli zoccoli ed evitare
il rischio di scivolamento, e con la previsione del cambio degli animali
secondo il regolamento regionale”.
Secondo la Corte Costituzionale non sussiste in materia
una organica disciplina legislativa statale, né le misure previste
dall’accordo Stato Regioni di qualche
tempo fa come pure e delle ordinanze statali hanno comunque trovato trasposizione
in una fonte normativa primaria. Quindi la norma regionale contestata ha la
funzione di contemperare la possibilità di svolgimento di specifiche
manifestazioni popolari di riconosciuto valore storico-culturale con la
riconosciuta esigenza di salvaguardia degli animali impiegati, che costituisce
indubbiamente principio ispiratore degli interventi in materia.
Il
giudizio di fronte alla Corte di Giustizia (sentenza
23 Aprile 2020 causa C161-19) riguarda il caso dell’Austria che ha
autorizzato la caccia primaverile alle beccacce.
L’articolo
7 paragrafo 4 Direttiva 2009/147/CE [NOTA 1] recita : “Gli
Stati membri si accertano che l’attività venatoria, compresa eventualmente la
caccia col falco, quale risulta dall’applicazione delle disposizioni nazionali
in vigore, rispetti i principi di una saggia utilizzazione e di una regolazione
ecologicamente equilibrata delle specie di uccelli interessate e sia
compatibile, per quanto riguarda la popolazione delle medesime, in particolare
delle specie migratrici, con le disposizioni derivanti dall’articolo 2. Essi
provvedono in particolare a che le specie a cui si applica la legislazione
sulla caccia non siano cacciate durante il periodo della nidificazione né
durante le varie fasi della riproduzione e della dipendenza. Quando si
tratta di specie migratrici, essi provvedono in particolare a che le specie a
cui si applica la legislazione sulla caccia non vengano cacciate durante il
periodo della riproduzione e durante il ritorno al luogo di nidificazione.
Gli Stati membri trasmettono alla Commissione tutte le informazioni utili
sull’applicazione pratica della loro legislazione sulla caccia.”.
La Repubblica
d’Austria adduce che il regime rientra nella deroga prevista
all’articolo 9, paragrafo 1,
lettera c), della direttiva 2009/147. Ai sensi di tale norma, gli Stati membri
possono derogare, sempre che non vi
siano altre soluzioni soddisfacenti, all’articolo 7, paragrafo 4, della
direttiva, per consentire in condizioni rigidamente controllate e in modo
selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati
uccelli in piccole quantità.
Secondo
la giurisprudenza costante della
Corte, incombe agli Stati membri dimostrare che le condizioni necessarie sono soddisfatte.
Secondo
la Commissione
la caccia autunnale appare
un’alternativa soddisfacente, poiché le beccacce sono presenti in
quantità considerevoli nelle aree di caccia della Bassa Austria anche in
autunno. La Repubblica d’Austria non ha fornito elementi di prova convincenti a
sostegno della sua argomentazione secondo la quale la caccia primaverile
avrebbe un impatto minore sulle popolazioni di beccacce rispetto a quella
autunnale. Inoltre, il calcolo delle «piccole quantità» è errato, in quanto le
autorità austriache si basano su popolazioni di riferimento erronee.
Secondo
la Corte di Giustizia, nella sentenza
qui esaminata, la beccaccia è una specie elencata nella parte A [NOTA 2] dell'allegato II della direttiva 2009/147/CE e secondo la normativa austriaca
contestata viene permessa la caccia alla beccaccia nel periodo dal 1° Marzo al
15 Aprile quindi, secondo la Corte di Giustizia nel periodo vietato dal
paragrafo 4 articolo 7 della Direttiva 2009/147/CE sopra citato.
Inoltre,
sempre secondo la Corte nella sentenza in esame, all'argomento della
Repubblica d'Austria secondo cui una caccia primaverile selettiva mirata
esclusivamente a beccacce maschio in piccole quantità sarebbe preferibile a una
caccia illimitata di esemplari di entrambi i sessi in autunno, è importante
notare che L'articolo 7, paragrafo 4, primo comma, della Direttiva 2009/147/CE
prevede che "Gli Stati membri
assicurano che la pratica della caccia ... rispetti i principi di saggio
utilizzo e di regolamentazione equilibrato dal punto di vista ecologico delle
specie di uccelli interessate e che questa pratica è compatibile, per quanto
riguarda la popolazione di queste specie, in particolare le specie migratorie,
con le disposizioni derivanti dall'articolo 2 della presente Direttiva
" . L'autorizzazione a cacciare al di fuori dei periodi di cui
all'articolo 7, paragrafo 4, secondo e terzo comma, di detta direttiva non può
essere illimitata e dovrebbe in ogni caso rispettare tale requisito per un
"uso ragionevole".
Di
conseguenza, la Repubblica d'Austria non ha fornito prove del fatto che la
caccia primaverile della specie beccacce sarebbe meno impegnativa della caccia
autunnale per la popolazione delle specie interessate nella Bassa Austria e che
non ci sarebbe pertanto, "altra soluzione soddisfacente" ai sensi
dell'articolo 9, paragrafo 1, della direttiva uccelli.
In
secondo luogo, per quanto riguarda la condizione relativa ai "piccoli
quantitativi" cacciabili di cui
all'articolo 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva Uccelli, è importante
ricordare che, secondo una giurisprudenza costante, l'esistenza di una violazione deve essere
valutata alla luce della situazione nello Stato membro esistente alla fine del
periodo fissato nel parere motivato e che le modifiche che sono state apportate
successivamente non possono essere prese in considerazione dal Tribunale. Nel
caso di specie, è pacifico che il numero di beccacce, valido il 29 luglio 2015,
vale a dire alla fine del periodo fissato nel parere motivato, si basava su
calcoli errati e per questo il numero è stato successivamente ridotto per
questo motivo. Quindi L’Austria non
aveva una adeguata conoscenza dello stato di fatto della popolazione di
beccacce per poter applicare la deroga prevista dall’articolo 9 della Direttiva
più volte citato sopra.
Quindi
la Corte di Giustizia con la sentenza in esame ha statuito che Alla luce di
tutte le considerazioni che precedono, si deve rilevare che, autorizzando la
caccia primaverile della beccaccia nella terra della Bassa Austria, la
Repubblica d'Austria non ha adempiuto ai suoi obblighi ai sensi dell'articolo
7, paragrafo 4, della direttiva sugli uccelli.
Oggetto
della impugnazione di fronte alla Corte Costituzionale è la norma regionale
che consente
l’allenamento e l’addestramento del falco durante tutto l’anno, con divieto di
cattura di fauna selvatica, ma senza divieto di predazione. Secondo la difesa
dello Stato detta norma sarebbe in contrasto con le disposizioni statali che
autorizzano l’esercizio dell’attività venatoria solo in determinati periodi
dell’anno, al fine di salvaguardare la consistenza della fauna selvatica e di
garantire la tutela dell’ambiente.
La cattura si identifica, infatti, con lo scopo stesso
della caccia, ma, contrariamente a quanto sottintende la difesa della Regione,
il divieto per il falconiere di appropriarsi della preda non esclude che questa
sia comunque uccisa dal falco. Pertanto, conclude la Corte Costituzionale con
sentenza 63/2020, la norma regionale impugnata, che sostituisce il divieto
di predazione con il divieto di cattura della fauna selvatica, abbassa il
livello di tutela dell’ambiente e, quindi, invade la competenza statale.
Le specie elencate in questa sezione dell’allegato II secondo l’articolo 7
della Direttiva: “In funzione del loro
livello di popolazione, della distribuzione geografica e del tasso di
riproduzione in tutta la Comunità le specie elencate all’allegato II possono
essere oggetto di atti di caccia nel quadro della legislazione nazionale. Gli
Stati membri faranno in modo che la caccia di queste specie non pregiudichi le azioni
di conservazione intraprese nella loro area di distribuzione”.
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