martedì 19 maggio 2020

Consiglio di Stato su industrie insalubri poteri dei Comuni e principio di precauzione

Il Consiglio di Stato con sentenza recentissima (QUI)  ha affrontato la vicenda di un diniego di permesso di costruire e di autorizzazione alle emissioni per uno stabilimento industriale per la macinazione, miscelazione, frantumazione di leganti idraulici e carbonato di calcio (praticamente una cementificio senza completo ciclo produttivo).
La sentenza del Consiglio di Stato di seguito esaminata è molto interessante perché partendo dalla questione di merito ribadisce alcuni importanti principi in materia di disciplina delle industrie insalubri, di come devono essere classificate le attività rientranti in questo elenco, di quali siano i poteri dei Comuni in materia, di come il principio di precauzione di derivazione comunitaria debba essere considerato vincolante per un corretto processo decisionale a rilevanza ambientale al fine di una tutela preventiva della salute dei cittadini.


GLI ATTI ISTITUZIONALI CONTESTATI DAI TITOLARI DELLA AZIENDA
Nel caso oggetto della sentenza qui esaminata il Comune richiedeva il parere igienico sanitario alla Azienda sanitaria, che, con la nota successiva, rilevava che dal progetto presentato, pur emergendo accorgimenti per il contenimento delle emissioni, restavano criticità sulla localizzazione, in quanto l’impianto avrebbe impattato sulla ricaduta di polveri nella frazione respirabile, contribuendo: “comunque ad incrementare l’inquinamento al suolo in una situazione già fragile riguardante oltre alla località interessata anche gli abitati limitrofi”; invitava pertanto il Comune a valutare l’idoneità dell’area e del sito ove sarà installato l’impianto, da classificarsi come industria insalubre di prima classe ai sensi della lettera B punto 33 del D.M. 5 settembre 1994.

A sua volta l’ARPA territorialmente competente rilevava la mancanza di una corretta valutazione quali/quantitativa delle emissioni, in particolare con riferimento ai metalli pesanti; la mancanza del controllo in continuo delle polveri su tutti i camini; la mancanza di proposte di interventi per la riduzione dei camini come previsto dall’art. 270 DLgs 152 del 2006; la mancanza del modelli di previsione di ricaduta delle polveri.
Soprattutto l’Arpa sottolineava i numerosi superamenti dei limiti nella qualità dell’aria per le polveri fini (PM10) nonché il fatto che il Piano Regionale qualità aria classificava il Comune interessato dall’impianto in Zona A di rischio di superamento dei valori limite e delle soglie d’allarme per il PM 10.

A sua volta il Dirigente del settore urbanistica del Comune interessato, sulla base del suddetto parere della ASL e dell’art. 23 delle NTA del Piano particolareggiato, che prevedeva che “i fumi, le esalazione e le polveri non devono risultare nocive all’uomo e all’ambiente,” si esprimeva negativamente sul rilascio del permesso di costruire.

Infine in sede di Conferenza dei Servizi indetta dalla Provincia per il rilascio della autorizzazione alle emissioni, i rappresentanti del Comune interessato si esprimevano in senso negativo, per la posizione del sito nelle vicinanze dell’abitato a 500 metri dall’abitato, sia sotto il profilo urbanistico che sanitario non sussistendo un parere favorevole della ASL.



LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO
La sentenza ribaltando la sentenza di primo grado,  afferma  la legittimità degli atti sopra descritti  con le seguenti motivazioni..

Come si classifica una attività o impianto come industria insalubre
Il Consiglio di Stato chiarisce che per definire insalubre non basta guardare solo l’elenco delle attività di cui alla sezione C Parte I allegato al Decreto Ministeriale del 1994 (vedi QUI) ma anche al ciclo produttivo della attività/impianto da classificare quindi anche alle altre due sezioni della Parte I (sostanze utilizzate sezione A e prodotti/materiali sezione C). Nel caso specifico così statuisce il Consiglio di Stato: ”il D.M. 5 settembre 1994, Elenco delle industrie insalubri di cui all'art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie, nell’allegato alla lettera B) della parte prima, che classifica le industrie insalubri di prima classe, in base ai “Prodotti e materiali e fasi interessate dell'attività industriale”, indica al punto n. 33, la “produzione di cementi” senza alcuna distinzione del sistema di produzione e della fasi di lavorazione; ne deriva già sotto tale profilo la classificazione quale industria insalubre di prima classe. Di fronte a tale dato testuale tassativo, che non limita la indicazione degli stabilimenti di produzione del cemento in relazione al tipo di ciclo produttivo effettuato, non possono condividersi le affermazioni del CTU, né le argomentazioni del giudice di primo grado che le hanno riprese, per cui la mancanza del ciclo completo di produzione del cemento con la combustione escluderebbe tale classificazione.
In relazione a quanto affermato dal consulenze tecnico di ufficio nominato dal giudice di primo grado in relazione alla tesi per cui l’impianto in questione non è un vero e proprio cementificio in quanto non prevede una vera attività di combustione, il Consiglio di Stato così ha statuito: “Si tratta, infatti, di rilievi del consulente in chiaro contrasto con la previsione normativa. Inoltre, al n. 83 del medesimo elenco della lettera B) dell’allegato al D.M. 5 settembre 1994 è indicata “macinazione, frantumazione di minerali e rocce”, tra cui anche rientra l’attività in questione, per la quale anche il CTU nelle proprie conclusioni e nelle risposte alle osservazioni del CTP ha rilevato, inoltre, la emissione di polveri anche silicee.”.


La legittimità di norme anche di tipo urbanistico che pongono precise condizioni alla localizzazione di industrie insalubri di prima classe
Afferma sul punto il Consiglio di Stato: “La classificazione quale industria insalubre di prima classe, era stata indicata anche dalla ASL in precedenza al contenzioso in esame. Ne deriva la legittimità del diniego del Comune sotto il profilo urbanistico, in relazione alla previsione dell’art. 23 della NTA del Piano particolareggiato, che vietava espressamente tali industrie nell’area in questione, salva “l’adozione da parte del gestore dell’impianto di particolari interventi per evitare l’aggravio della salubrità e della qualità dell’ambiente circostante” e con la valutazioni indicate dal medesimo art. 23 da parte degli organi competenti in materia igienico-sanitaria ed ambientale” circa l’assenza di un aggravamento della salubrità ambientale e del rispetto, nell’area in esame, dei limiti di qualità dell’aria ambiente stabiliti per la salvaguardia della salute umana” circostanze escluse, nel caso di specie, dai pareri della ASL e dell’ARPAV, che avevano rilevato criticità circa l’inquinamento dell’area e il suo incremento con l’impianto in questione.


I poteri del Sindaco in materia di industrie insalubri a prescindere dalle norme urbanistiche che definiscono le destinazioni funzionali delle aree comunali
Secondo il Consiglio di Stato: “… anche a prescindere dalla questione urbanistica relativa al rispetto delle norme tecniche di attuazione del piano particolareggiato, la classificazione quale industria insalubre, ai sensi dell’art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie, comporta l’applicazione comunque dei poteri generali di controllo su tali attività attribuiti al Sindaco da tale disposizione.”
Aggiunge sul punto il Consiglio di Stato: “… il Comune poteva valutare tutte le circostanze relative alla vicinanza dell’impianto all’abitato, anche indipendentemente dalla previsione urbanistica dell’art. 23, tenuto conto che l’art. 216 cit. riferisce la valutazione ad un concetto, quello di “lontananza dalle abitazioni”, “spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di industria di cui concretamente si tratta” ( cfr. Sez. III, 24 settembre 2013, n. 4687 - QUI) e che la discrezionalità che si esercita in questa materia è ampia ( cfr. Sez. IV, 15 dicembre 2011, n. 6612).”.


La natura dei poteri del Sindaco in materia di industrie insalubri
Afferma il Consiglio di Stato: “La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio, infatti, ritiene che le disposizioni degli artt. 216 e 217 R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, attribuiscano al Sindaco, ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il cui parere tecnico ha funzione consultiva ed endoprocedimentale, un ampio potere di valutazione della tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie, classificate “insalubri” per contemperare le esigenze di pubblico interesse con quelle pur rispettabili dell'attività produttiva, anche prescindendo da situazioni di emergenza ( cfr. Cons. Stato Sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900 (QUI); Sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6264 - QUI).


Il principio di precauzione e la sua natura imperativa nei procedimenti di autorizzazione a rilevanza ambientale
Il Consiglio di Stato con la sentenza in esame chiarisce la natura imperativa quindi vincolante se sostenuta da adeguate istruttorie tecniche del principio di precauzione nelle decisioni ambientali.
Afferma il Consiglio di Stato nella sentenza qui esaminata: L’art. 191 [NOTA 1] del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea ha, infatti, indicato, al comma 1, la protezione della salute umana fra gli obiettivi della politica comunitaria in materia ambientale e, al comma 2, il principio di precauzione, quale obbligo giuridico di assicurare un elevato livello di tutela ambientale con l'adozione delle migliori tecnologie disponibili finalizzato ad anticipare la tutela, poi da apprestarsi in sede legislativa, a decorrere dal momento in cui si profili un danno da riparare, ai fini sia della sua prevenzione, ove possibile, sia del suo contenimento in applicazione del richiamato principio di precauzione, donde la rilevanza di quest'ultimo principio generale, soprattutto nel settore della salute, con una valenza non solo programmatica, ma direttamente imperativa nel quadro degli ordinamenti nazionali, vincolati ad applicarlo qualora sussistano incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone.
Detto principio generale integra, quindi, un criterio orientativo generale e di larga massima, che deve caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima ancora quelle amministrative, come prevede espressamente l'art. 1 della legge n. 241 del 1990, ove si stabilisce che “l’attività amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta ... dai principi dell'ordinamento comunitario” (Consiglio di Stato, Sez II. 6 aprile 2020, n. 2248 QUI; IV, 18 luglio 2017, n. 3559) - QUI.





Articolo 191 (ex articolo 174 del TCE) 1. La politica dell'Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti obiettivi: — salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente, — protezione della salute umana, — utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, — promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i problemi dell'ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici. 2. La politica dell'Unione in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione. Essa è fondata sui principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente, nonché sul principio «chi inquina paga».


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