Il Consiglio di Stato con
sentenza recentissima (QUI)
ha affrontato la vicenda di un diniego
di permesso di costruire e di autorizzazione alle emissioni per uno stabilimento
industriale per la macinazione, miscelazione, frantumazione di leganti idraulici
e carbonato di calcio (praticamente una cementificio senza completo ciclo
produttivo).
La
sentenza del Consiglio di Stato di seguito esaminata è molto interessante perché
partendo dalla questione di merito ribadisce alcuni importanti principi in
materia di disciplina delle industrie insalubri, di come devono essere
classificate le attività rientranti in questo elenco, di quali siano i poteri
dei Comuni in materia, di come il principio di precauzione di derivazione
comunitaria debba essere considerato vincolante per un corretto processo
decisionale a rilevanza ambientale al fine di una tutela preventiva della
salute dei cittadini.
GLI ATTI ISTITUZIONALI
CONTESTATI DAI TITOLARI DELLA AZIENDA
Nel
caso oggetto della sentenza qui esaminata il Comune richiedeva il parere igienico
sanitario alla Azienda sanitaria, che, con la nota successiva, rilevava che dal
progetto presentato, pur emergendo accorgimenti per il contenimento delle
emissioni, restavano criticità sulla localizzazione, in quanto l’impianto
avrebbe impattato sulla ricaduta di polveri nella frazione respirabile, contribuendo: “comunque ad incrementare l’inquinamento al suolo in una situazione già fragile riguardante
oltre alla località interessata anche gli abitati limitrofi”; invitava
pertanto il Comune a valutare l’idoneità dell’area e del sito ove sarà
installato l’impianto, da classificarsi come industria insalubre di prima
classe ai sensi della lettera B punto 33 del D.M. 5 settembre 1994.
A
sua volta l’ARPA territorialmente competente rilevava la mancanza di una
corretta valutazione quali/quantitativa delle emissioni, in particolare con
riferimento ai metalli pesanti; la mancanza del controllo in continuo delle
polveri su tutti i camini; la mancanza di proposte di interventi per la
riduzione dei camini come previsto dall’art. 270 DLgs 152 del 2006; la mancanza
del modelli di previsione di ricaduta delle polveri.
Soprattutto
l’Arpa sottolineava i numerosi superamenti dei limiti nella qualità dell’aria
per le polveri fini (PM10) nonché il fatto che il Piano Regionale qualità aria
classificava il Comune interessato dall’impianto in Zona A di rischio di
superamento dei valori limite e delle soglie d’allarme per il PM 10.
A
sua volta il Dirigente del settore urbanistica del Comune interessato, sulla
base del suddetto parere della ASL e dell’art. 23 delle NTA del Piano
particolareggiato, che prevedeva che “i fumi, le esalazione e le polveri non
devono risultare nocive all’uomo e all’ambiente,” si esprimeva negativamente
sul rilascio del permesso di costruire.
Infine in sede di Conferenza
dei Servizi indetta dalla Provincia per il rilascio della autorizzazione alle
emissioni, i rappresentanti del Comune interessato
si esprimevano in senso negativo, per la posizione del sito nelle vicinanze
dell’abitato a 500 metri dall’abitato, sia sotto il profilo urbanistico che
sanitario non sussistendo un parere favorevole della ASL.
LA SENTENZA DEL
CONSIGLIO DI STATO
La
sentenza ribaltando la sentenza di primo grado,
afferma la legittimità degli atti
sopra descritti con le seguenti
motivazioni..
Come si classifica una
attività o impianto come industria insalubre
Il
Consiglio di Stato chiarisce che per definire insalubre non basta guardare solo
l’elenco delle attività di cui alla sezione C Parte I allegato al Decreto Ministeriale del 1994 (vedi QUI) ma anche
al ciclo produttivo della attività/impianto da classificare quindi anche alle
altre due sezioni della Parte I (sostanze utilizzate sezione A e
prodotti/materiali sezione C). Nel caso specifico così statuisce il Consiglio
di Stato: ”il D.M. 5 settembre 1994, Elenco delle industrie insalubri di cui
all'art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie, nell’allegato
alla lettera B) della parte prima, che classifica le industrie insalubri di
prima classe, in base ai “Prodotti e
materiali e fasi interessate dell'attività industriale”, indica al punto
n. 33, la “produzione di cementi”
senza alcuna distinzione del sistema di produzione e della fasi di lavorazione;
ne deriva già sotto tale profilo la classificazione quale industria insalubre
di prima classe. Di fronte a tale dato testuale tassativo, che non limita la
indicazione degli stabilimenti di produzione del cemento in relazione al tipo
di ciclo produttivo effettuato, non possono condividersi le affermazioni del
CTU, né le argomentazioni del giudice di primo grado che le hanno riprese, per
cui la mancanza del ciclo completo di produzione del cemento con la combustione
escluderebbe tale classificazione.”
In relazione a quanto affermato dal consulenze tecnico
di ufficio nominato dal giudice di primo grado in relazione alla tesi per cui l’impianto
in questione non è un vero e proprio cementificio in quanto non prevede una
vera attività di combustione, il Consiglio di Stato così ha statuito: “Si tratta, infatti, di rilievi del consulente in chiaro contrasto con la
previsione normativa. Inoltre, al n. 83 del medesimo elenco della lettera B) dell’allegato al
D.M. 5 settembre 1994 è indicata “macinazione,
frantumazione di minerali e rocce”, tra cui anche rientra l’attività in
questione, per la quale anche il CTU nelle proprie conclusioni e nelle risposte
alle osservazioni del CTP ha rilevato, inoltre, la emissione di polveri anche
silicee.”.
La legittimità di norme anche
di tipo urbanistico che pongono precise condizioni alla localizzazione di
industrie insalubri di prima classe
Afferma
sul punto il Consiglio di Stato: “La
classificazione quale industria insalubre di prima classe, era stata indicata
anche dalla ASL in precedenza al contenzioso in esame. Ne deriva la legittimità
del diniego del Comune sotto il profilo urbanistico, in relazione alla
previsione dell’art. 23 della NTA del Piano particolareggiato, che vietava
espressamente tali industrie nell’area in questione, salva “l’adozione da parte del gestore
dell’impianto di particolari interventi per evitare l’aggravio della salubrità
e della qualità dell’ambiente circostante” e con la valutazioni
indicate dal medesimo art. 23 da parte degli organi competenti in materia
igienico-sanitaria ed ambientale” circa
l’assenza di un aggravamento della salubrità ambientale e del rispetto,
nell’area in esame, dei limiti di qualità dell’aria ambiente stabiliti per la
salvaguardia della salute umana” circostanze escluse, nel caso di
specie, dai pareri della ASL e dell’ARPAV, che avevano rilevato criticità circa
l’inquinamento dell’area e il suo incremento con l’impianto in questione.”
I poteri del Sindaco in
materia di industrie insalubri a prescindere dalle norme urbanistiche che
definiscono le destinazioni funzionali delle aree comunali
Secondo
il Consiglio di Stato: “… anche a prescindere dalla questione urbanistica
relativa al rispetto delle norme tecniche di attuazione del piano
particolareggiato, la classificazione quale industria insalubre, ai sensi
dell’art. 216 del testo unico delle leggi sanitarie, comporta l’applicazione
comunque dei poteri generali di controllo su tali attività attribuiti al
Sindaco da tale disposizione.”
Aggiunge sul punto il Consiglio di Stato: “… il Comune poteva valutare tutte le circostanze relative alla vicinanza
dell’impianto all’abitato, anche indipendentemente dalla previsione urbanistica
dell’art. 23, tenuto conto che l’art. 216 cit. riferisce la valutazione ad un
concetto, quello di “lontananza dalle abitazioni”, “spiccatamente duttile avuto riguardo, in particolare, alla tipologia di
industria di cui concretamente si tratta” ( cfr. Sez. III, 24
settembre 2013, n. 4687 - QUI) e che la discrezionalità che si esercita in questa materia è ampia ( cfr.
Sez. IV, 15 dicembre 2011, n. 6612).”.
La natura dei poteri del
Sindaco in materia di industrie insalubri
Afferma
il Consiglio di Stato: “La giurisprudenza
consolidata di questo Consiglio, infatti, ritiene che le disposizioni degli
artt. 216 e 217 R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, attribuiscano al Sindaco,
ausiliato dalla struttura sanitaria competente, il cui parere tecnico ha
funzione consultiva ed endoprocedimentale, un ampio potere di valutazione della
tollerabilità o meno delle lavorazioni provenienti dalle industrie,
classificate “insalubri” per contemperare le esigenze di pubblico interesse con
quelle pur rispettabili dell'attività produttiva, anche prescindendo da
situazioni di emergenza ( cfr. Cons. Stato Sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900 (QUI); Sez. V, 27 dicembre 2013, n. 6264 - QUI).”
Il principio di precauzione e la sua natura imperativa
nei procedimenti di autorizzazione a rilevanza ambientale
Il Consiglio di Stato con
la sentenza in esame chiarisce la natura imperativa quindi vincolante se
sostenuta da adeguate istruttorie tecniche del principio di precauzione nelle
decisioni ambientali.
Afferma il Consiglio di
Stato nella sentenza qui esaminata: “L’art. 191 [NOTA 1] del Trattato sul
Funzionamento dell'Unione Europea ha, infatti, indicato, al comma 1, la
protezione della salute umana fra gli obiettivi della politica comunitaria in
materia ambientale e, al comma 2, il principio di precauzione, quale obbligo
giuridico di assicurare un elevato livello di tutela ambientale con l'adozione
delle migliori tecnologie disponibili finalizzato ad anticipare la tutela, poi
da apprestarsi in sede legislativa, a decorrere dal momento in cui si profili
un danno da riparare, ai fini sia della sua prevenzione, ove possibile, sia del
suo contenimento in applicazione del richiamato principio di precauzione, donde
la rilevanza di quest'ultimo principio generale, soprattutto nel settore della
salute, con una valenza non solo programmatica, ma direttamente imperativa nel
quadro degli ordinamenti nazionali, vincolati ad applicarlo qualora sussistano
incertezze riguardo all'esistenza o alla portata di rischi per la salute delle
persone.
Detto principio generale
integra, quindi, un criterio orientativo generale e di larga massima, che deve
caratterizzare non soltanto le attività normative, ma prima ancora quelle
amministrative, come prevede espressamente l'art. 1 della legge n. 241 del
1990, ove si stabilisce che “l’attività
amministrativa persegue i fini determinati dalla legge ed è retta ... dai
principi dell'ordinamento comunitario” (Consiglio di Stato, Sez II. 6
aprile 2020, n. 2248 QUI; IV, 18 luglio 2017, n. 3559) - QUI.”
Articolo 191 (ex articolo 174 del TCE) 1. La politica
dell'Unione in materia ambientale contribuisce a perseguire i seguenti
obiettivi: — salvaguardia, tutela e miglioramento della qualità dell'ambiente,
— protezione della salute umana, — utilizzazione accorta e razionale delle
risorse naturali, — promozione sul piano internazionale di misure destinate a
risolvere i problemi dell'ambiente a livello regionale o mondiale e, in
particolare, a combattere i cambiamenti climatici. 2. La politica dell'Unione
in materia ambientale mira a un elevato livello di tutela, tenendo conto della
diversità delle situazioni nelle varie regioni dell'Unione. Essa è fondata sui
principi della precauzione e dell'azione preventiva, sul principio della
correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all'ambiente,
nonché sul principio «chi inquina paga».
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