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lunedì 23 gennaio 2023

Impianti rifiuti distanti da zone abitate: è un obbligo!

Il Consiglio di Stato con sentenza n° 8441 del 20 dicembre 2021 (QUI) ha statuito sulla necessità o meno di rispettare il criterio del Piano Regionale gestione rifiuti che stabilisce: gli impianti che trattano rifiuti pericolosi debbono essere ubicati a non meno di 500 metri dagli “insediamenti abitativi”, non rilevando invece, a tal fine, le mere “case sparse”.

Sul tema vedi in precedenza anche QUI.

 

 

OGGETTO DELLA CONTROVERSIA

Nel caso esaminato dalla sentenza una ditta aveva richiesto e, in primo battuta, ottenuto il rilascio di una Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) per realizzare e gestire un impianto di recupero di rifiuti pericolosi e non pericolosi.

La ditta in sede di istanza per la domanda di AIA aveva dichiarato che le abitazioni insistenti nella zona erano “case sparse” e non “insediamenti residenziali” per cui “il sito in esame non si trova in nessuna delle suddette aree ritenute non idonee alla localizzazione degli impianti di gestione dei rifiuti. Le stesse abitazioni presenti a meno di 500 m sono case sparse, quindi escluse dal vincolo della distanza dall’impianto”.

Sulla base della istanza la Regione non avendo verificato la fondatezza della dichiarazione aveva rilasciato l’AIA.

Successivamente su impulso del Comune territorialmente competente la Regione aveva avviato una verifica sulla fondatezza delle dichiarazioni della ditta relativamente alla esistenza di un insediamento residenziale entro la distanza dei 500 metri del criterio del Piano Regionale Gestione Rifiuti.

Sulla base di questa verifica, svolta in conferenza dei servizi, la Regione, preso atto della documentazione prodotta dal Comune secondo cui l’impianto sarebbe ubicato ad una distanza da “insediamenti residenziali” inferiore a 500 metri, avvia il procedimento di annullamento parziale in autotutela dell’AIA, nella parte in cui questa è riferita al trattamento di rifiuti pericolosi; la Regione, in proposito, ritiene legittimo il prospettico annullamento, benché successivo al decorso del termine di 18 mesi dal rilascio dell’atto, in quanto questo sarebbe stato a suo tempo ottenuto mediante una “falsa rappresentazione dei fatti”.

 

 


LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO

Secondo la sentenza è merso dalla documentazione prodotta dal Comune che entro il raggio di 500 metri dall’impianto insistono gruppi aggregativi di abitazioni palesemente privi di quel carattere isolato ed atomistico che qualifica le “case sparse”.

Ne consegue, dunque, che non si è in presenza di una errata qualificazione giuridica, ma di un’affermazione per tabulas distonica rispetto alla realtà fattuale, come tale integrante quella “falsa rappresentazione”, ossia quella rappresentazione oggettivamente difforme dal vero, in presenza della quale l’art. 21-nonies l. n. 241 del 1990 (QUI) facoltizza l’Amministrazione ad annullare in autotutela un atto anche dopo il decorso del termine ordinario di 18 mesi ex articolo 21-nonies legge 241/1990 (peraltro ridotto a 12 dal d.l. n. 77 del 2021, convertito con modificazioni dalla l. n. 108 del 2021) dalla relativa emanazione.

La ditta aveva contestato di non essere responsabile dell’errore ma semmai la Regione aveva sbagliato in sede di rilascio dell’AIA a non effettuare la verifica. Sul punto il Consiglio di Stato, nella sentenza qui esaminata, afferma di non apprezzare un iniziale deficit istruttorio da parte della Regione, che ha provveduto al rilascio dell’autorizzazione sulla scorta delle dichiarazioni prodotte dall’interessata (e curate, lo si ripete, da professionisti del settore), in omaggio a quel criterio di buona fede e collaborazione che deve presiedere ai rapporti di diritto amministrativo fra Autorità e, appunto, amministrati. Allo stesso tempo il Consiglio di Stato rileva come non si può imputare, come vizio dell’azione amministrativa di annullamento della Regione dell’AIA rilasciata, il non aver pregiudizialmente diffidato delle affermazioni formulate, nel corso del procedimento, dallo stesso istante.

Il Consiglio di Stato poi ribadisce come principio generale che il criterio dei 500 metri ha palese natura “escludente per cui il potere di autotutela è stato legittimamente esercitato nonostante il decorso di un tempo superiore ai 18 mesi, una volta appurato il mancato rispetto ab origine del requisito in discorso.


 

Il Consiglio di Stato precisa anche le modalità di misurazione di detta distanza dei 500 metri.

In particolare nella sentenza si afferma che  il computo delle distanze non può che effettuarsi con metodo radiale (ovvero, in altra prospettiva, in linea d’aria). La ratio della previsione di una distanza minima da “insediamenti residenziali” (peraltro maggiorata ove gli impianti trattano rifiuti pericolosi) risiede nella ravvisata opportunità di creare un buffer di sicurezza attorno all’impianto, evidentemente al fine di evitare (od almeno ridurre) qualunque forma di potenziale ed imprevedibile pericolo per i residenti, che non deriva solo dal traffico veicolare in entrata ed uscita dall’impianto, ma può originare da qualunque altra causa. Ne consegue che la misurazione deve operarsi in linea d’aria, ossia tracciando una circonferenza con al centro l’impianto, al fine di delimitare la zona entro la quale, ai fini della legittima realizzazione dell’impianto, non debbono insistere “insediamenti residenziali”, essendo tollerabili soltanto “case sparse”.


 

Relativamente al rapporto tra Piano regionale e Pianificazione provinciale in materia di localizzazione impianti rifiuti.

La ditta appellante aveva sollevato la non applicabilità del criterio contenuto nel Piano Regionale, sulla distanza dei 500 metri: “in quanto non recepito dalla Provincia (in cui ricade il Comune interessato) nel proprio strumento di pianificazione territoriale”.

Il Consiglio di Stato non condivide la tesi della ditta in quanto l’immediata vigenza delle prescrizioni in tema di distanze consegue comunque alla natura self-executing delle medesime, la cui chiarezza ed univocità non abbisogna di alcuna specificazione applicativa da parte delle Province.

Peraltro, ricorda il Consiglio di Stato, la legge regionale in materia stabilisce che il Piano “definisce”, tra l’altro, “i criteri per l’individuazione, nell’ambito del PTCP [Piano Territoriale di Coordinamento Provinciale], delle zone idonee e di quelle non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti”, ma la previsione puntuale di specifiche distanze minime configura prima facie un criterio contenutisticamente compiuto e funzionalmente auto-applicativo, che non necessita come tale, a valle, di alcuna intermediazione od integrazione provinciale.

In altri termini una cosa sono i criteri di localizzazione degli impianti di rifiuti dei Piani Regionali altra la individuazione da parte delle Province delle zone idonee e quindi siti specifici dove collocare detti impianti.

Dagli articoli 196 e 197 del DLgs 152/2006 si evince che la Provincia stabilisce i siti degli impianti tenuto conto dei criteri regionali e le dimensioni degli impianti stabilite dai piani regionali. Quindi i criteri regionali sono un presupposto che serve per svolgere la istruttoria del Piano provinciale.

 

 

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